«Chi parla male, pensa male e vive male» (Nanni Moretti)
In Di cosa stiamo parlando? dieci autori — linguisti, scrittori, poeti — commentano altrettanti stereotipi e tic della nostra conversazione, specchio fedele della società italiana: “In qualche modo”, “Si prega gentilmente”, “Esatto”, “Location”…
Da sempre la conversazione quotidiana è caratterizzata da modi di dire che, volta a volta, esprimono lo spirito del tempo. Solo alcuni di essi sopravvivono darwinianamente e si riadattano alle nuove epoche: come il sempreverde “fico” o “figo”, inalterato dagli anni ’60 ad oggi. Nulla di cui scandalizzarsi. Non bisogna farsi censori del lessico e, se qualcuno dice “un attimino”, pazienza.
Però mai come oggi, nella nostra società che ha rilanciato anche attraverso i social network la chiacchiera, quelle interiezioni hanno generato un inquinamento verbale che ha soprattutto la funzione di riempire il vuoto.
Di cosa stiamo parlando? Un airbag contro l’invadenza aggressiva del linguaggio comune.
Dalla prefazione di Filippo La Porta:
«Frasi fatte, espressioni di moda, cliché espressivi, interiezioni ricorrenti sono inevitabili e in un certo senso universali: la lingua è un organismo mobile, impuro, ibrido proprio in quanto vitale, e dunque condannare gli stereotipi della lingua — che cambiano ad ogni stagione — può diventare espressione di snobismo, se non di volgarità e smania di distinguersi. I tic che in passato ho provato a commentare e qualche volta ho severamente stigmatizzato — li uso spesso anche io, a volte in modo ossessivo (ad esempio l’odioso come dire?), né ho mai voluto propormi come custode della purezza incontaminata della lingua. Eppure mi appaiono spie preziose della trasformazione del costume e della mentalità. Possono rivelare, di un corpo sociale, ciò che non ci mostrano le ideologie o i dibattiti pubblici. Sono tracce, indizi e documenti veridici dell’inconscio della comunità. Quasi autobiografia della nazione».